La successione necessaria: profili storici

Di MARIA IRMA RICHTER -

Sommario: 1. Premessa – 2. Origine storica del nome – 3. L’assoluta libertà di testare del pater familias: dall’età monarchica fino alla tarda repubblica – 4. Il sopraggiungere della legitima in età imperiale – 5. Il diritto giustinianeo – 6. L’indisponibilità del patrimonio familiare presso le popolazioni germaniche – 7. Il testamento germanico – 8. La réserve nel droit coutumièr e la légitime nel droit ecrit – 9. La commistione tra rèserve e légitime – 10. I limiti alla libertà di testare imposti dai rivoluzionari francesi – 11. I limiti alla libertà di testare nel Codice napoleonico.

  1. Premessa

L’attuale meccanismo di tutela dei legittimari è rimasto sostanzialmente il medesimo dal primo codice dell’Italia unita del 1865. I profondi cambiamenti che hanno coinvolto il Paese sia da un punto di vista sociale, che economico rendono la disciplina della successione necessaria gravemente obsoleta. Per far fronte alle serie problematiche che l’istituto pone in essere, negli ultimi cinquant’anni, la dottrina ha dato avvio ad un acceso dibattito in vista di una riforma organica dell’istituto, che si presenta tutt’altro che agevole. Il dibattito deve essere preceduto da una considerazione storica della disciplina dei diritti dei legittimari, dalla quale è possibile trarre interessanti rilievi critici sui veti apposti durante il corso della storia ad istituti strettamente connessi alla disciplina de quo, quali la diseredazione o i patti successori, oltre che importanti spunti in vista di una riforma strutturale della successione necessaria.

  1. Origine storica del nome

L’espressione successione necessaria è utilizzata nel nostro ordinamento per definire il principale limite alla libertà di testare. Benché tale locuzione trovi certamente origine nel diritto romano, è bene sottolineare come essa avesse un significato completamente diverso rispetto a quello che le attribuiamo noi oggi. A dire il vero, i romani non impiegavano all’espressione successione necessaria, che non è mai stata rinvenuta nelle fonti e che dunque, con grande probabilità, era loro completamente sconosciuta. Facevano invece ricorso all’espressione «heredes sui et necessarii».   

Grazie a Gaio[1] sappiamo che per gli antichi romani gli «heredes sui et necessarii» erano coloro che dovevano necessariamente succedere al pater familias se quest’ultimo avesse deciso di istituirli suoi eredi. Questo perché, tali soggetti, in quanto membri della famiglia, si trovavano in una condizione di soggezione tale, per cui non gli era neppure concesso rifiutare l’eredità che il pater familias avesse deciso di lasciargli.

Mentre per noi, oggigiorno, gli eredi necessari sono quegli stretti congiunti che, per legge, devono necessariamente ricevere una certa quota di patrimonio da parte del testatore. Di conseguenza, il de cuius è oggi obbligato, col suo testamento, a lasciare una certa frazione dei suoi beni agli eredi necessari. E nel caso il testore decida di non farlo, tramite preterizione o espressa diseredazione, dopo il suo decesso, ci penserà il giudice a garantire che gli eredi necessari, preteriti o diseredati, ricevano la quota che gli spetta di diritto, nonostante la volontà contraria del de cuius.

Questo notevole stravolgimento di significato ha origini sorprendentemente recenti. Sono stati i pandettisti tedeschi, a cavallo tra fine Ottocento e primi Novecento, a trarre dall’espressione romana «heredes sui et necessarii» il concetto di successione necessaria a cui hanno attribuito l’attuale significato, ossia: successione contro la volontà del testatore («Erbfolge gegen den letzen Willen»)[2]. Questo non significa che l’ordinamento romano non conoscesse alcun limite alla libertà di testare, ma semplicemente che ricorresse a ben altra terminologia per farvi riferimento.

  1. L’assoluta libertà di testare del pater familias: dall’età monarchica fino alla tarda repubblica

Dall’età arcaica fino alla tarda repubblica, il pater familias[3] godette di una assoluta libertà di testare. Egli d’altronde rappresentò, fin dalle origini, una vera e propria signoria suprema all’interno della comunità domestica. Suo l’intero patrimonio familiare e suoi sottoposti tutti i membri della famiglia. Il diritto romano ricorse a una pluralità di espressioni per indicare tali ampissimi poteri, principalmente: ius, potestas, manus e mancipium.[4] In virtù del loro esercizio il pater familias avrebbe, ad esempio, potuto infliggere punizioni corporali in caso di disubbidienza («ius corrigendi») e persino decidere della vita o morte di ogni suo sottoposto («ius vitae ac necis»).

Già da questi brevi accenni è evidente come il pater familias condizionasse in maniera determinante l’esistenza di ogni suo sottoposto. La centralità della sua figura emergeva, però, in tutta la sua portata solo al momento della sua morte. Il decesso del capo produceva conseguenze significative all’interno della famiglia, di natura sia personale, che patrimoniale, a cui l’ordinamento giuridico romano apprestò una specifica normativa. Per disciplinare le modifiche di status dei membri della famiglia e soprattutto l’incertezza circa la sorti del patrimonio che il trapasso del pater avrebbe inevitabilmente prodotto, lo ius civile offrì, sin dall’età arcaica, due soluzioni: la successione testamentaria (o ex testamento) e la successione ab intestato (o ex lege). Per cui la chiamata all’eredità poteva avvenire o tramite testamento, con cui il de cuius disponeva dei suoi beni secondo la sua volontà, altrimenti, in mancanza di testamento o in caso di testamento invalido, la chiamata alla successione sarebbe avvenuta in forza di una norma di diritto oggettivo[5]. Queste due forme di successione erano alternative fra loro. Il diritto romano vietava che una potesse integrare l’altra. Per cui, o si applicava la successione testamentaria oppure, se quest’ultima fosse mancata o fosse stata invalida, si sarebbe applicava la successione intestata. Queste due forme di delazione furono le uniche ammesse. Ed infatti il diritto romano rifiutò quale causa di delazione pure i patti successori[6].

Di assoluta libertà di testare nella storia del diritto romano, si può però parlare “solo” fino al I a.C. circa, ossia fino alla tarda repubblica. Difatti nel diritto romano arcaico e preclassico non venne previsto alcun limite sostanziale alla libertà di testare. L’unico limite, era di natura meramente formale, sintetizzato nel broccardo, elaborato dalla giurisprudenza pontificale: «sui heredes aut instituendi sunt vel exhereditandi»[7]. In base al quale, gli «heredes sui et necessarii», ovvero i familiari sottoposti alla potestas, manus o mancipium del de cuius, dovevano obbligatoriamente essere menzionati nel testamento o per essere istituiti eredi oppure per essere diseredati, non potendo essere preteriti pena la nullità del testamento. In questo modo si impose al testatore quello che potremmo definire una sorta di obbligo di condotta: al pater familias era concesso dare a chi volesse il suo patrimonio, a condizione che nel suo testamento non ignorasse quei soggetti (gli «heredes sui et necessarii» appunto) dei quali ebbe la possibilità di disporre al punto da poterne decretare la vita o la morte. Dunque, in virtù di questo broccardo, il pater familias avrebbe potuto decidere di diseredare tutti i suoi familiari e poi devolvere l’intero suo patrimonio a un unico estraneo, un amico ad esempio. Per questo, gli interpreti di oggi, ricorrendo a un vocabolario moderno, qualificano questo sistema come “successione necessaria formale”, in quanto non esisteva alcun limite sostanziale che impedisse al de cuius di diseredare i membri della sua famiglia. Pertanto, lo ius civile non garantiva i familiari dalla diseredazione, ma esclusivamente dalla preterizione.

Questa assoluta libertà di diseredare fino alla tarda repubblica non creò grandi problemi, perché non si diseredava o comunque si diseredava molto poco. Questo scarso ricorso alla diseredazione fu principalmente dovuto a due fattori: la forte probità ai costumi che caratterizzò la popolazione romana di quei secoli[8] e le modalità previste dallo ius civile per fare testamento.

Quest’ultimo aspetto merita un approfondimento. Secondo quanto riferito da Gaio nelle sue Istitutiones, nel periodo considerato, si susseguirono diversi tipi di testamento, ciascuno caratterizzato da diverse formalità di adempimento. Originariamente, in età arcaica, vennero previsti il testamentum calatis comitiis[9] e il testamentu im procintu[10]. Essi vennero poi velocemente sostituiti dalla mancipatio familiae[11], che si evolvette nel testamento per aes et libram[12]. Nonostante questa evoluzione, alcune caratteristiche restarono costanti. Non essendo ancora diffuso il documento scritto, tutti questi testamenti rimasero esclusivamente orali, per questo fu sempre richiesta la presenza di più testimoni, dunque di un pubblico. E proprio la presenza di un pubblico costituì un potente freno inibitore a diseredazioni ingiustificate o per futili motivi. Fu proprio la modalità pubblica prevista per fare testamento, ed in particolare l’esposizione al giudizio dell’opinione pubblica che questa comportava, ad ostacolare in modo determinante un disinvolto ricorso alla diseredazione.

La diseredazione costituiva un atto gravissimo, soprattutto da un punto di vista sociale. Essere diseredati non significava solo essere esclusi dal patrimonio familiare. Essere diseredati comportava socialmente un marchio di infamia pesantissimo. Il sentimento di profonda disapprovazione manifestato dal pater familias con tale estremo ed ultimo atto di volontà, finiva per essere adottato e condiviso da tutta la società. Non era richiesto al pater di esplicitare i motivi della diseredazione, che, dunque, nella maggior parte dei casi, rimasero celati. Tuttavia, era una convinzione condivisa e radicata nella società romana che si trattasse di uno strumento a cui ricorrere solo in casi di estrema gravità, ossia in tutti quei casi in cui il sottoposto avesse con la sua condotta arrecato un profondo dolore al pater.

Anche le formalità richieste per diseredare furono significative per evitare un eccessivo ricorso a tale istituto. La diseredazione doveva essere esplicitamente adottata nel testamento in forma imperativa e solenne, ricorrendo alla formula inversa rispetto a quella richiesta per istituire erede, e quindi ad esempio: «Titius filius meus exheres esto»[13] che significa «Sia mio figlio Tizio diseredato». Non tutti i membri della famiglia erano, però, sullo stesso piano. Mentre i ceteri sui[14] potevano essere diseredati con un’unica formula complessiva, i filii sui, ossia i figli maschi del pater familias, dovevano, invece, essere ciascuno diseredato nominativamente[15], pena la nullità del testamento e la conseguente apertura della successione ab intestato. L’imposizione di tale modalità venne prevista, oltre che per ragioni di certezza del diritto, anche allo scopo di costringere il testatore a soffermarsi su tale decisione, e dunque, a riflettere maggiormente sulle sue conseguenze per i figli.

  1. Il sopraggiungere della legitima in età imperiale

Dal I secolo a.C. si assistette a grandi cambiamenti. La probità ai costumi, che aveva caratterizzato fino ad allora i romani, andò notevolmente ad attenuarsi. Ma soprattutto, cambiarono le modalità di fare testamento, sempre più private e meno pubbliche. L’avvio di questo cambiamento avvenne ad opera del pretore, il quale in età classica introdusse in un nuovo tipo di testamento: il c.d. testamento pretorio. Dalla sua introduzione, nel diritto romano, coesistettero due tipi di testamento: quello civile e quello pretorio. Quest’ultimo ebbe il merito di liberare il testamento dalle antiche e macchinose ritualità. In particolare fece venir meno l’obbligo della lettura del testamento davanti ai testimoni. Tale antica formalità venne convertita in una mera facoltà a discrezione del testatore. Il testamento pretorio ebbe talmente successo che le sue novità vennero ricalcate dal testamento civile, così che i due testamenti (nonostante rimasero formalmente distinti) andarono notevolmente ad attenuare le loro differenze. La caduta dell’obbligo da parte del de cuius di leggere il suo testamento davanti ai testimoni, costituì un passo decisivo che permise al testatore di mantenere riservato il contenuto del suo testamento. Successivamente Valentiniano III si spinse ancora oltre, ammettendo nel 446 d.C. anche la validità di quel testamento che fosse stato scritto e sottoscritto a mano dal testatore, senza la presenza di alcun testimone. Si trattò di una vera e propria rivoluzione.

Tutti questi cambiamenti, ossia una più agevole e privata modalità di redazione del testamento e una probità ai costumi che andò sempre più sfumando con il passare dei secoli, uniti a un’assoluta libertà di testare che rimase fermo caposaldo del diritto successorio romano, ebbero come risultato un aumento esponenziale delle diseredazioni. Si moltiplicarono sia le ipotesi di diseredazione ingiustificata, sia quelle per futili motivi ed anche le ipotesi in cui il testatore, pur non diseredando formalmente i propri «heredes sui et necessarii», disponeva a loro favore un ammontare talmente irrisorio di patrimonio, da avere per gli eredi il sapore di una sostanziale diseredazione. D’altronde il sistema fin qui considerato si era preoccupato di offrire ai familiari del de cuius una tutela meramente formale, che sanzionava la preterizione, ma che non garantiva alcuna tutela materiale dalla diseredazione. Per cui il de cuius rimaneva libero di diseredare quanto volesse, e dal momento che erano venuti meno tutti quei vincoli che sino alla tarda repubblica erano riusciti a contenere il fenomeno diseredativo, questo esplose. Il diffondersi di diseredazioni ingiustificate o per futili motivi rese sempre più urgente salvaguardare le aspettative dei prossimi congiunti ponendo limiti materiali e non solo formali alla libertà di testare.

Per venire incontro alle esigenze dei familiari non si intervenne attraverso la legge, ma si operò per via di interpretazione facendo ricorso, sul finire della Repubblica, a un espediente retorico escogitato dagli oratori presso il tribunale dei centumviri, l’unico competente per le liti ereditarie. Gli oratori sostenevano che il testatore che, senza giusti motivi, non avesse lasciato alcuna parte del suo patrimonio ai più vicini parenti non avesse osservato l’officium pietatis[16], ossia quel dovere fondamentale di affetto e solidarietà familiare che doveva avere verso i suoi stretti congiunti. Sostanzialmente gli oratori sollecitarono i magistrati ponendogli la seguente domanda: quale padre sano di mente diserederebbe i propri figli senza alcun giusto motivo? Gli oratori sostenevano, dunque, che il testamento che contenesse diseredazioni ingiustificate dei prossimi congiunti andasse considerato inofficiosum in quanto contrario all’officium pietatis. Il tribunale dei centumviri rimase persuaso da queste argomentazioni e le fece proprie iniziando a riconoscere agli stretti congiunti ingiustamente diseredati, o anche a quelli semplicemente preteriti, la possibilità di impugnare il testamento come invalido sulla base di una presunta insanità mentale[17]. Si presumeva, quindi, infermo di mente il pater familias che diseredasse senza giusto motivo i propri stretti congiunti. Tale presunzione permetteva di dichiarare nullo il testamento in quanto non era ammissibile assecondare la volontà di colui che si trovasse “sotto il colore della follia” («sub colore insanie»[18]).  Alla conseguente nullità del testamento si faceva seguire l’apertura della successione ab intestato[19]. L’azione per ottenere la dichiarazione di testamento inofficioso (ossia di testamento nullo) aveva efficacia obbligatoria e prese il nome di querela inofficiosi testamenti. I legittimati a proporre tale querela erano gli stretti congiunti intesi come coloro che sarebbero stati chiamati secondo la successione ab intestato sia iure civili che iure pretorio. Non potevano però avvalersi della querela i congiunti che avessero ricevuto mortis causa dal testatore almeno un quarto di quello che sarebbe spettato loro in caso di successione ab intestato: si tratta della c.d. portio debita[20]. La portio debita era quella quota di patrimonio che se riconosciuta dal de cuius agli stretti congiunti avrebbe precluso loro il ricorso alla querela e quindi messo al sicuro il testamento dalla nullità. Si tratta del primo limite sostanziale alla libertà di testare della storia romana. Questa soglia aveva lo scopo di contenere il ricorso alla querela, sia perché il suo esperimento comportava la nullità del testamento (che si voleva preservare il più possibile), sia per contenere il numero delle querele ed evitare che queste finissero per soffocare l’unico tribunale competente, ossia quello dei centumviri. Tali porzioni di patrimonio dovute agli stretti congiunti dovevano essere lasciate libere da qualunque onere, dunque andavano calcolate sul solo attivo del patrimonio ereditario con deduzione dei debiti e delle spese funerarie. Per evitare che il testatore diminuisse il proprio attivo patrimoniale compiendo in vita liberalità in fronde agli stretti congiunti, l’imperatore Alessandro Severo concesse ai danneggiati la querela inofficiose donationis o dotis, con la quale essi potevano chiedere l’annullamento della donazione o dote che in qualche modo fosse andata a ledere le loro aspettative alla portio debita. Con il tempo la portio debita venne soprannominata «legitima». Gli aventi diritto la legittima vennero per questo denominati legittimari. Tali denominazioni sono ancora tutt’oggi utilizzate nel nostro ordinamento.

A differenza del sistema attuale, in quello romano la lesione della legittima doveva risultare già al momento della donazione. Di conseguenza la legittima romana si calcolava esclusivamente sul relictum e solo nel caso in cui la donazione fosse risultata lesiva della legittima già al tempo del suo compimento, allora la massa di calcolo si sarebbe estesa anche al donatum. Inutile dire che questo sistema presentava gravi difetti. Il principale era costituito dall’assurda differenza di trattamento fra il caso in cui il valore della donazione fosse risultato uguale o di poco inferiore al limite della legittima e il caso in cui invece fosse risultato di poco superiore.

Nel diritto romano la legittima non costituiva un semplice credito in valore verso l’eredità, da potersi soddisfare in qualunque modo. Si trattava invece di un credito in natura, da doversi soddisfare esclusivamente tramite beni ereditari («ex rebus substantiae patris»[21]). Il fatto che la legittima potesse essere soddisfatta soltanto con beni appartenenti all’asse ereditario, e quindi di proprietà del de cuius, è dovuto, in primo luogo, al principio di natura generale per cui nessuno può trasferire ad altri diritti che neppure egli stesso ha («Nemo plus iuris ad alium transferre potest quam ipse habet»[22]). Ed in secondo luogo, vi era una ragione squisitamente culturale. I romani contemplavano l’erede come il diretto e naturale continuatore del de cuius. L’erede era pertanto chiamato a proseguire ovvero a portare ordinatamente a termine ciò che era stato iniziato dal deceduto. E una delle conseguenze di tutto ciò comportava necessariamente che l’erede subentrasse proprio nel diritto su quei beni che erano stati di proprietà del testatore.

Il testatore era però libero di stabile con quali suoi beni soddisfare la legittima. Avrebbe, per ipotesi, potuto scegliere di soddisfarla in toto con terreni, ma nulla gli avrebbe impedito di soddisfarla interamente con denaro ereditario. In questo senso la legittima per equivalente è già presente nel diritto romano.

Si è visto come alla pronuncia di inofficiosità conseguisse la nullità totale del testamento. Quest’effetto della querela inofficiosi testamenti apparve però eccessivo qualora il testatore avesse lasciato ai legittimari una porzione dei propri beni a titolo di legittima insufficiente rispetto a quella dovuta, per mero errore materiale (ad esempio per errore di calcolo). Questa eccessiva tutela riconosciuta ai legittimari rese ai romani questa azione particolarmente “odiosa”. Onde impedire che gli stretti congiunti facessero dichiarare totalmente nullo il testamento anche nei casi in cui il testatore non avesse attribuito loro una sufficiente legittima per mero errore materiale, l’imperatore Costanzo adottò una nuova azione ad efficacia obbligatoria che consentì al legittimario di ottenere un’integrazione se la quota attribuitogli fosse risultata inferiore al dovuto. L’azione in questione è l’actio ad supplementam legitimam. Il suo esperimento era però possibile solo nel caso in cui il testatore non avesse previsto nel suo testamento un’apposita clausola che ordinasse il supplemento nell’eventualità in cui il lascito risultasse di valore inferiore a quello dovuto (la c.d. clausola arbitratu boni viri[23]).

  1. Il diritto giustinianeo

L’assetto definitivo, nel diritto romano, lo si deve a Giustiniano. Egli tramite il suo Corpus Iuris, recepì il previgente sistema, riorganizzandolo in maniera organica e apportandogli, allo stesso tempo, importanti modifiche.

È a Giustiniano che si deve la definitiva sistemazione dell’actio ad supplementam legitimam. Egli stabilì che tale azione fosse esperibile indipendentemente dalla presenza o meno nel testamento della clausola arbitratu boni viri. Inoltre, chiarì definitivamente il fatto che l’erede che avesse ricevuto beni ereditari inferiori alla legittima, per ottenere la quota mancante, non avrebbe potuto scegliere tra la querela inofficiosi testamenti e l’actio ad supplementam legitimam, ma avrebbe potuto esperire soltanto quest’ultima[24].

Ma gli interventi più importanti in materia furono apportati da Giustiniano con la Nov. 115 dell’anno 542. In questa Giustiano stabilì che requisito di efficacia del testamento era l’istituzione ereditaria del legittimario. Pertanto, Giustiniano riconobbe, tramite la querela inofficiosi testamenti, il potere di far dichiarare nullo il testamento, non solo ai legittimari che fossero stati preteriti o ingiustamente diseredati, ma anche a quei legittimari che non fossero stati istituiti col testamento eredi, nonostante il de cuius avesse provveduto a soddisfare la loro quota di legittima. Quindi, secondo l’assetto predisposto da Giustiniano, costituiva violazione dei diritti dei legittimari non solo la mancata attribuzione di una quota di patrimonio pari alla legittima, ma anche la mancata istituzione di erede in sé e per sé. Tant’è che se il legittimario non fosse stato istituito erede, anche se avesse ricevuto beni ereditari pari alla legittima, avrebbe potuto comunque ottenere la nullità del testamento[25]. Questo approccio così “severo” da parte del diritto giustinianeo si deve a una determinata concezione della famiglia, per cui la disciplina dei legittimari non era semplicemente una questione economica. Giustiniano riteneva che l’officium pietatis esigesse qualcosa di più che la semplice attribuzione della legittima agli stretti congiunti affinché questi avessero il pane quotidiano per poter vivere («quotidianum habeant cibum»[26]). Egli riteneva che l’officum pietatis esigesse anche che il testatore onorasse i suoi discendenti o ascendenti col titolo di erede. Ed infatti, secondo una mentalità ancora fortemente radicata, l’ingiuria al familiare era principalmente dovuta alla mancata istituzione di erede, più che a un lascito ereditario di modica entità.

La diseredazione rimaneva un atto gravissimo, a cui il testatore avrebbe dovuto ricorrere solo in casi di extrema ratio. Per questo Giustiano, abbracciando la presunzione che solo un padre insano di mente diserederebbe i propri figli o stretti congiunti per ingiustificati motivi, stabilì che la diseredazione fosse possibile, ma solo nei casi tassativamente previsti dalla legge. Giustiano fissò 14 motivi di giusta diseredazione per i discendenti, tra cui comparirono l’attentato alla vita e l’accusa criminale e 8 motivi di giusta diseredazione per gli ascendenti, tra cui rientrarono, oltre che l’attentato alla vita, anche l’impedimento a fare testamento e il concubinato con la nuora[27].

Infine, Giustiniano non solo riconfermò la regola per cui la quota di legittima dovesse essere lasciata libera da qualunque onere, ma stabilì anche che l’erede dovesse rispondere dei legati nel solo limite dei beni ereditari restanti dopo la deduzione della porzione legittima, la quale divenne, pertanto, intangibile.

 

  1. L’indisponibilità del patrimonio familiare presso le popolazioni germaniche

Una volta terminata l’analisi circa la genesi dei limiti alla libertà di testare nel diritto romano, è arrivato il momento di analizzare lo sviluppo del diritto successorio presso le popolazioni germaniche. Questo perché, la successione necessaria non è solo il frutto della cultura giuridica romana, ma anche di quella germanica. In particolare, è stata proprio la loro commistione a costituire un tassello fondamentale per lo sviluppo dell’istituto per come lo conosciamo oggi.

Per una miglior comprensione è opportuno svolgere alcune considerazioni sulla cultura di queste popolazioni. I germani rimasero a lungo gente nomade. Provenienti dalla Scandinavia, col tempo si spinsero sempre più a sud, alla ricerca di territori più ospitali. Le terre, temporaneamente occupate tra una migrazione e l’altra, venivano considerate dell’intera comunità e quindi sfruttate collettivamente. Questo fece sì che le popolazioni germaniche non sviluppassero alcun concetto di proprietà individuale paragonabile a quello romano.

Tacito, tramite la sua opera De origine et situ Germanorum del 98 d.C., riferisce come al suo tempo i germani erano, ormai da diverso tempo, divenuti sedentari[28]. Di conseguenza, presumibilmente nel periodo che corrisponde all’età della repubblica romana, iniziò, da parte delle popolazioni germaniche, una progressiva occupazione stabile delle terre. Esse vennero divise in porzioni e ciascuna porzione attribuita a una famiglia. La titolarità delle singole famiglie su queste terre venne però a configurarsi, non come una proprietà individuale, ma come una comproprietà familiare (la c.d. Hausgemeinschaft). Questa peculiare configurazione è facilmente spiegabile. Mentre la civiltà romana si dotò di una organizzazione statutale forte e gerarchicamente organizzata, che finì per riflettersi nella struttura familiare. Per i germani la mancanza di una qualsivoglia organizzazione politica comportò «che i gruppi familiari fossero maggiormente uniti e solidali»[29]. Per questo la famiglia germanica non si strutturò in maniera così gerarchicamente organizzata come quella romana. Il capo famiglia più che un capo era un primus inter pares, tant’è che non gli venivano riconosciuti particolari poteri rispetto agli altri membri della famiglia. Più che poteri, gli venivano attribuite responsabilità. Ed infatti, i romani, con riferimento al capo famiglia germanico, non ricorrevano ad espressioni quali potestas, manus o mancipium, ma bensì a quella di mundium, ossia del dovere di proteggere i membri della famiglia.

A differenza del diritto romano, il patrimonio familiare non era contemplato dai germani come proprietà esclusiva ed individuale del capo. Era anzi contemplato come un patrimonio comune, destinato al sostentamento di tutta la comunità familiare. Per questo, sul capo famiglia germanico, incombeva anche il dovere di amministrare il patrimonio familiare allo scopo di incrementarlo e garantirne l’integrità[30].

La concezione di comproprietà familiare comportò che ogni membro della famiglia potesse trasferire a terzi soltanto la sua quota e solo previo consenso dei parenti, i quali godevano su tali quote di un vero e proprio diritto di prelazione. Questo veniva fatto in virtù della c.d. idea politica del lignaggio, per cui si voleva il più possibile mantenere le fortune della famiglia al suo interno, proprio perché preordinate al mantenimento dei suoi membri. Di conseguenza, presso le popolazioni germaniche, il patrimonio della famiglia era indisponibile da parte di ciascun suo singolo membro, senza l’approvazione del gruppo familiare[31].

Queste limitazioni non riguardavano solo agli atti inter vivos, ma si estendevano anche gli atti mortis causa. Le popolazioni germaniche non conoscevano il testamento. A riguardo, famoso è il broccardo romano «nullum testamentum apud germanos»[32], con cui si indicava l’impossibilità per i germani di disporre dei propri beni tramite atto di ultima volontà, personale e revocabile. Originariamente, dunque, le popolazioni germaniche conoscevano solo la successione legittima. Ne conseguì che, secondo le consuetudini germaniche, alla morte del loro titolare, i beni sarebbero stati trasferiti in automatico ai discendenti ed in loro mancanza agli ascendenti. E nell’eventualità in cui non fosse stato rinvenuto neppure un ascendente, allora il patrimonio sarebbe stato interamente destinato agli abitanti del villaggio. Pertanto, indipendentemente da ogni volontà del titolare, gli unici successibili contemplabili erano i membri della famiglia e il fondamento di questo diritto successorio stava in sé e per sé nel legame di sangue che univa gli appartenenti del medesimo lignaggio[33].

  1. Il testamento germanico

I numerosi contatti, più o meno pacifici, tra romani e popolazioni germaniche, che si susseguirono dal II secolo a.C. in avanti, ebbero come risultato quello di andare gradualmente «a mitigare le rigide regole della comproprietà familiare e della successione»[34] germanica. Ma davvero decisiva fu la cristianizzazione di queste popolazioni e l’influenza esercitata su di loro dalla Chiesa. Essa si fece promotrice, nella cultura germanica, del principio della libera disposizione delle sostanze da parte dei singoli, affinché a ciascun membro della famiglia fosse riconosciuta una quota di patrimonio di cui poter disporre liberamente, anche a favore di estranei. L’attività della Chiesa ebbe presto i suoi frutti. Già dal VI secolo d.C., nelle leggi dei popoli germanici cristianizzati, venne previsto che il padre potesse utilizzare liberamente, una minima quota del patrimonio familiare, dopo che questo fosse stato diviso con i figli. Tale porzione era la c.d. portio sua, anche detta portio patris[35]. La restante parte del patrimonio familiare restava, invece, vincolata ai parenti. Pertanto, (ricorrendo a una terminologia moderna) una minima parte del patrimonio familiare (la portio sua) divenne disponibile, mentre la restante parte restò indisponibile. Presso alcune popolazioni la portio sua era di natura variabile e variava a seconda di quanti figli si avesse e se fossero maschi oppure femmine[36]. Mentre presso altre popolazioni era di natura fissa. Al di là che fosse di natura fissa oppure variabile, rimaneva una porzione che nella maggior parte dei casi non superava un quinto del patrimonio familiare[37].

Grazie ai contatti con i romani, le popolazioni germaniche conobbero il testamento. Essendo, però, qualcosa di totalmente estraneo rispetto alla loro tradizione giuridica, lo recepirono gradualmente e solo grazie all’influenza della Chiesa che lo favorì come strumento tramite cui disporre della portio sua. Di conseguenza, mentre la porzione indisponibile continuava ad essere in automatico devoluta ai parenti secondo l’ordine stabilito dalla legge (successione legittima), la portio sua veniva devoluta dal titolare tramite testamento (successione testamentaria). Col tempo, dunque, i germani riuscirono a inglobare questo “corpo estraneo” nel loro ordinamento giuridico, ma gioco forza stravolgendolo, per adattarlo al loro sistema. Proprio per questo venne chiamato testamento germanico. Esso presentava, infatti, delle particolarità rispetto al testamento romano. In primo luogo, i germani fecero cadere la regola romana per cui successione legittima e testamentaria non potevano essere congiuntamente applicate. Mentre per i romani si trattava di delazioni alternative, i germani le trasformarono in delazioni cumulative, per cui una concorreva con l’altra. In secondo luogo, mentre per i romani il testamento era atto di disposizione mortis causa a titolo universale, predisposto per devolvere l’intera eredità a uno o più eredi, i germani lo trasformarono in un atto di disposizione mortis causa a titolo particolare, per devolvere ad un estraneo determinati beni ereditari.

Inizialmente la legge stabilì che tale estraneo potesse essere solo la Chiesa. L’idea politica del lignaggio era talmente radicata nella cultura germanica, per cui soltanto una devoluzione a favore dell’anima («ad ecclesiam pro redemptione animae suae»[38]) avrebbe potuto giustificare una distrazione del patrimonio familiare rispetto alla sua naturale destinazione, ossia agli appartenenti del medesimo lignaggio, i figli in primis.

Tuttavia, con il tempo, presso il popolo longobardo si impose la prassi per cui con tale testamento il de cuius disponesse della sua quota di patrimonio familiare, oltre che a favore della Chiesa, anche a favore di veri e proprie estranei. Naturalmente questo indispettì i familiari, i quali se potevano accettare una rinuncia alla quota paterna in favore della Chiesa, non certo potevano arrivare ad accettare un loro impoverimento a favore di un qualunque altro estraneo. Pertanto, in tali ipotesi, gli stretti congiunti invocarono l’invalidità di tali testamenti. Oltre alle gravi pene comminate dal diritto ecclesiastico contro chi avesse fatto annullare i testamenti che contenessero disposizioni a favore della Chiesa, a respingere definitivamente le istanze dei prossimi congiunti ci pensò il re longobardo Liutprando. Egli vedeva positivamente l’affermarsi di questa prassi, che decise di recepire giuridicamente. Senza del tutto disattendere le regole sulla comproprietà familiare, Liutprando stabilì che il padre, dopo aver diviso il patrimonio familiare con i figli, avrebbe potuto disporre liberamente dell’intera quota di patrimonio a lui spettante a favore di qualsiasi estraneo. La portio sua diventa finalmente una quota di cui il suo titolare poteva davvero liberamente disporre. Tale quota «è stata valutata come l’essenza della “riserva medievale”»[39].

Per completezza è bene specificare come le popolazioni germaniche, col tempo, svilupparono anche un ulteriore istituto (oltre al testamento) con cui poter disporre della portio patris: i patti successori. Infatti, presso le popolazioni germaniche, e a differenza di quanto avvenne per il diritto romano, tali strumenti vennero ampiamenti ammessi.

  1. La réserve nel droit coutumièr e la légitime nel droit ecrit

Decisivo ai fini dello sviluppo della successione necessaria per come la conosciamo oggi, furono le vicende che interessarono i territori dell’attuale Francia. In tali territori, infatti, venne a crearsi una notevole divisione sia giuridica, che culturale, tra territori del nord e territori del sud, che «permise la coesistenza in quel territorio di entrambi i modelli sin qui descritti»[40]. Nei territori del nord, geograficamente coincidenti con la zona sovrastante la linea immaginaria che corre tra Ginevra e Bordeaux, al diritto romano inizialmente osservato dai Franchi, prevalsero, dal Duecento in poi, le consuetudini franco-germaniche. I territori del sud della Francia, invece, continuarono ad applicare il diritto romano. Pertanto vi erano, a sud i territori del c.d. droit ecrit, ossia i territori del diritto scritto, che seguivano il diritto giustinianeo; e a nord i territori del c.d. droit coutumièr, ossia i territori che applicavano il diritto consuetudinario germanico. Le consuetudini franco-germaniche erano, infatti, chiamate coutumes. Esse venivano tramandate oralmente ed erano differenti nei vari territori, potendo addirittura cambiare da villaggio a villaggio.

Mentre nei territori del sud si mantenne il principio romano di unitarietà della successione, nei territori consuetudinari del nord non fu così. Presso quei territori, l’idea politica del lignaggio fece sì che le coutumes prevedessero regole successorie diverse a seconda della natura e della provenienza dei beni ereditari. A questo fine, i beni immobili vennero divisi in due categorie. Vennero chiamati propres gli immobili che il de cuius aveva ricevuto tramite successione o donazione dai suoi ascendenti o da altre persone del suo lignaggio. Mentre vennero chiamati acquêts gli immobili acquisiti in vita dal de cuius per «commercio, merito aut fortuna»[41]. E, infine, vi erano i meubles, ossia i beni mobili. Questi ultimi erano al quanto trascurati delle coutumes e tale trascuratezza, fu una costante di tutta l’età feudale, in cui era radicata l’idea: «res mobili, res vili»[42]. Questo perché, nella economia feudale, l’unica fonte di ricchezza e potere erano i terreni. I beni mobili, invece, erano considerati cosa vile, in quanto, essendo per loro natura beni destinati a un rapido deperimento, non erano adatti alla trasmissione ereditaria. Proprio per questo, anche nei territori del sud, in cui si applicava il diritto romano, i giuristi feudali interpretarono le disposizioni giustinianee nel senso che ciascun legittimario avesse diritto a conseguire la legittima quale porzione qualitativamente uguale alla composizione del patrimonio ereditario. Questo significa che, a differenza del diritto giustinianeo, il legittimario dell’età feudale non aveva solo diritto ad avere beni ereditari per un valore corrispondente alla sua quota, ma aveva anche diritto a conseguire la sua quota come parte proporzionale su ciascun bene ereditario. Questa interpretazione aveva lo specifico scopo di impedire che il padre potesse comporre la legittima di un figlio con solo denaro o altri beni mobili. Dunque, il precetto giustinianeo fu oggetto, da parte dei giuristi del periodo feudale, di un’interpretazione volta a superarne arbitrariamente il significato letterale, così da attribuirgli quello “desiderato”.

Proprio a causa della loro concezione di «res vili», le coutumes ignorarono totalmente i beni mobili, non prevedendo per loro alcuna regola successoria. Di conseguenza, di essi si poteva disporre, anche mortis causa, senza limitazione alcuna. Le coutumes, invece, si preoccuparono di prevedere diverse regole successorie, a seconda del tipo di bene immobile. Gli acquêts furono riconosciuti pienamente disponibili, mentre la disponibilità dei propres fu limitata in una quota, che secondo le coutumes di Parigi (prese a modello da tutte le altre coutumes locali) corrispondeva ad un quinto. Gli altri quattro quindi (ossia la gran parte del patrimonio) erano indisponibili. Tale quota indisponibile dei propres era riservata agli stretti congiunti, per questo fu denominata réserve e i membri della famiglia che ne avevano diritto riservatari. In linea con la cultura giuridica germanica, di tutto ciò che non rientrava nella riserva si poteva disporre, oltre che per testamento, anche per contratto successorio oppure, in caso di loro assenza o lacuna, di successione legittima. Di conseguenza, erano nulle tutte le disposizioni testamentarie o i patti successori nella misura in cui eccedevano il quinto dei propres.

La riserva si devolveva secondo la regola «paterna paternis, materna maternis». Essa attribuiva ai parenti della linea paterna i propres che il defunto aveva ricevuto dal padre o da qualcuno dei parenti paterni, e allo stesso modo attribuiva ai parenti della linea materna i propres che il defunto aveva ricevuto dalla madre o da qualcuno dei parenti materni[43].

Nei territori della Francia si arrivò, dunque, ad avere a nord il droit coutumiers, in cui regnava l’istituto della réserve, e a sud il droit ecrit, in cui regnava l’istituto della légitime.

È possibile a questo punto soffermarsi sulla interessante distinzione tra legittima romana e riserva germanica. Mentre i romani partirono da un’assoluta libertà di testare, che andò nel tempo attenuandosi, tramite l’istituto della legittima. I germani, all’opposto, partirono da un’assoluta indisponibilità del patrimonio familiare, che andò gradualmente ad attenuarsi grazie, all’istituto della portio sua prima, e di quello della riserva poi. Si tratta, dunque, di due sistemi giuridici che partirono da posizioni estreme ed opposte, per poi entrambe convergere verso un assetto più moderato. Legittima romana e riserva germanica sono due istituti che hanno in comune un solo elemento fondamentale, ossia il fatto di costituire quella parte indisponibile del patrimonio destinata agli stretti congiunti. Per il resto si tratta di due istituti molto diversi. Prima di tutto diversi erano i beni ricompresi nel calcolo. La legittima colpiva tutti i beni relitti e anche i beni donati se al momento della donazione fossero risultati lesivi della porzione dovuta al legittimario. La riserva colpiva, invece, soltanto una categoria di beni (i propres) e non colpiva le donazioni fatte in vita dal de cuius (ciò almeno secondo il maggior numero di coutumes, comprese quelle di Parigi). Inoltre, mentre la legittima consisteva in un quota variabile a seconda del numero e della qualità dell’erede, la riserva del droit coutumiers consisteva in una quota fissa, predeterminata, indipendentemente dal numero degli aventi diritto. Diversi erano anche i soggetti tutelati. Nel diritto romano i legittimari erano i discendenti e in loro mancanza gli ascendenti. Mentre nel diritto franco-germanico i riservatari erano tutti i parenti della linea paterna/materna a seconda della provenienza dei propres. Diversa è anche la loro operatività. Mentre «la legittima è una porzione individuale ragguagliata a una parte della quota intestata»[44], che sarebbe spettata al legittimario se il defunto fosse morto senza testamento. La riserva è, invece, «una quota collettivamente attribuita ai membri della famiglia»[45] materna/paterna, proprio in virtù del principio germanico di comproprietà familiare. Diversa era anche la loro tutela: obbligatoria per i romani, reale per i franchi. Infine, diverso era il loro principio ispiratore. Mentre «la legittima è fondata sull’idea morale dell’officium pietatis del testatore nei confronti dei prossimi congiunti, la riserva è fondata sull’idea politica del lignaggio»[46].

  1. La commistione tra rèserve e légitime

A differenza di quanto avveniva nei territori del sud di diritto romano, nei territori del nord, la maggior parte delle coutumes (tra cui quelle di Parigi) non ponevano limiti al potere di disporre dei propres per donazione tra vivi. E come si può facilmente immaginare, questo finì per andare a danno dei prossimi congiunti. Mancando questi limiti, nei territori del nord, era infatti possibile fare in vita donazioni che andassero ad estinguere i propres, lasciando completamente a bocca asciutta i propri familiari. Ma questa non fu l’unica ragione che spiega l’aumentare nel corso del tempo dei casi in cui ai parenti fu riconosciuta una quota di riserva sempre più esigua. Era cambiata la società e la sua economia. I propres erano «sempre meno consistenti di generazione in generazione»[47], mentre col fiorire delle attività commerciali delle nuovi classi emergenti del terzo stato, «cresceva l’importanza della ricchezza immobiliare acquista col proprio lavoro»[48], ossia gli acquêts. Anche per questa ragione, i casi in cui agli stretti congiunti spettava una riserva irrisoria, se non inesistente, aumentarono, destando le feroci proteste dei familiari. La risposta dei giureconsulti dei territori del nord non poté tardare ad arrivare. Per trovare una soluzione, essi guardarono al diritto romano dei territori del sud, il quale venne riscoperto e promosso come «raison écrite contro l’irrazionalità dell’uso»[49]. «Pierre de Fontaines scrive che non appare sano di mente il padre che sacrifica i suoi figli lasciando tutti i beni non riservati a un estraneo»[50]. Della stessa idea Philippe de Beaumanoir, che ritiene «encontre raison» il testamento o il contratto successorio in cui, senza una causa ragionevole, il de cuius dispone di tutta la sua quota disponibile a favore di estranei, arricchendoli a scapito dei propri parenti stretti[51]. Pertanto, nei territori del nord, per una miglior tutela degli stretti congiunti venne introdotto un correttivo che richiamava l’istituto della legittima romana vigente nei territori del diritto scritto del sud, compiendo una prima commistione tra rèserve e légitime. Nei territori del nord si stabilì che se i familiari non fossero riusciti, tramite la riserva conseguita, ad ottenere una quota uguale alla metà di quella che avrebbero conseguito se il de cuius fosse morto intestato, allora avrebbero potuto ricorrere all’istituto della legittima, grazie al quale i familiari avrebbero potuto soddisfarsi sui beni mobili e sugli acquêts e nel caso in cui anche questi fossero risultati insufficienti a raggiungere la metà di quello che gli sarebbe spettato ab intestato, avrebbero potuto impugnare le liberalità fatte dal defunto in vita, a cominciare dall’ultima in ordine di data. Naturalmente su questa quota di legittima avrebbero dovuto imputare i beni ricevuti in vita dal de cuius per atto a titolo gratuito, come pure ciò che erano riusciti a conseguire mediante l’istituto della riserva. Con siffatto rimedio l’istituto della legittima venne radicalmente stravolto rispetto al diritto romano. La legittima diventò sussidiaria alla riserva, un suo complemento, il che comportò il passaggio dal concetto romano di legittima come pars bonorum, a quello di legittima come pars hereditatis.

Per tutelare i prossimi congiunti venne introdotta una nuova azione, ossia l’action en rétrachement[52], delineata per la prima volta dal giureconsulto Beaumanoir nella sua opera Coutumes de Beauvaisis nel 1690. Essa venne poi ribattezzata action de réduction, diretta a far dichiarare l’inefficacia delle disposizioni lesive nella misura occorrente per integrare il valore della porzione di legittima. Si tratta di un’azione munita di efficacia reale (a differenza dell’actio ad supplementam legitimam romana ad efficacia obbligatoria) «in quanto la restituzione dei beni colpiti dalla riduzione può essere domandata anche ai terzi aventi causa dal legatario o dal donatario»[53].

 

  1. I limiti alla libertà di testare imposti dai rivoluzionari francesi

È giunto il momento di occuparci di quel ricco, quanto complesso, laboratorio giuridico, che fu la Rivoluzione francese. Durante la Révolution il tema della libertà di testare, e dei suoi limiti, fu oggetto di ripetute ed accese discussioni, in cui argomentazioni di natura politica si intrecciavano a valutazioni di natura filosofica.

Il primo grande interrogativo che i rivoluzionari francesi dovettero affrontare fu il seguente: la libertà di disporre dei propri beni tramite testamento o patto successorio è compatibile col principio di cui all’articolo 1 della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, relativo all’eguaglianza di tutti i cittadini e, dunque, anche dei figli? Ovvero, il principio di eguaglianza permette a un padre di dare la gran parte del suo patrimonio a un figlio, lasciando le “briciole” all’altro suo figlio? Si tratta di un tema estremamente caldo per i rivoluzionari, che provenivano da secoli di ingiustizie proprie dell’Ancien Régime, fra cui spiccava l’odioso istituto del maggiorascato.

La discussione non era però affatto scontata. L’assemblea costituente si divise in due. Da una parte vi erano i rivoluzionari più “moderati” i quali ritenevano che non andasse ulteriormente limitato il diritto di disporre dei propri beni tramite atto mortis causa. Infatti, se era loro certamente caro il principio di eguaglianza, essi avevano anche molto a cuore il sacro ed inviolabile[54] diritto di proprietà privata, riconosciuto sia dall’art. 2 che 17 della medesima Déclaration. Diritto di proprietà privata che a sua volta durante l’Ancien Régime era stato notevolmente sacrificato e che ora i rivoluzionari avevano il potere, oltre che il dovere, di liberare dalle “vecchie catene”. Inoltre, i sostenitori di questa visione, argomentarono come la libertà di disporre dei propri beni tramite testamento o patto successorio costituisse un corollario importante della patria potestà, istituto fondamentale per garantire la stabilità della società e l’ordine pubblico. Infine, tale orientamento più moderato presentò un’ultima e terza argomentazione, di natura squisitamente economica. Obbligare il padre a dividere il patrimonio immobiliare in parti uguali fra i figli avrebbe comportato una pericolosa frammentazione delle terre, con corrispondente perdita del loro valore, fonte di gravi danni economici ad effetto domino.

Opposto a questo orientamento c’era, invece, quello dei rivoluzionari più “estremi”. Essi disprezzavano profondamente qualsiasi istituto proprio dell’Ancien Régime, di cui ogni traccia andava rimossa. Per Mirabeau esiste una netta contrapposizione che vede da una parte il dispotismo paterno e dall’altra il sentimento e la ragione. La sua proposta è di ridurre a un decimo la quota di patrimonio di cui il padre può liberamente disporre, mentre il restante patrimonio sarebbe dovuto essere rigorosamente divisio in parti uguali fra i figli. Egli si premura di sottolineare come la quota disponibile non possa assolutamente essere usata per privilegiare uno dei figli. Secondo Robespierre bisogna far cadere la patria potestà, storico strumento di innumerevoli abusi e soprusi. Con essa, per Robespierre, va cancellata anche la possibilità di derogare all’eguaglianza dei figli nella successione, dal momento che la libertà testamentaria non è altro che origine di «bambini sacrificati ad altri bambini», dell’«opulenza crudele di un fratello insultante la povertà del suo fratello», di «vili manovre ed artici con cui l’avidità cerca di vincere l’eguale predilezione dei figli all’eredità paterna»[55]. Il principio di eguaglianza costituisce la principale conquista della rivoluzione, pagata col sangue, alla quale non è possibile derogare. Al punto che taluno, fra cui Dupont de Nemours, arrivò a sostenere che, in un conflitto tra eguaglianza e proprietà privata, sarebbe certamente dovuta essere la prima a prevalere, limitando la seconda, e per questo arrivò a teorizzare l’estinzione della proprietà individuale alla morte del suo titolare.

Inizialmente, a “vincere” questo dibattito fu il primo orientamento, quello più moderato, nel senso che, fino al 1793, non venne apportata alcuna ulteriore limitazione alla precedente disciplina dei limiti alla libertà di testare. Il secondo orientamento, ossia quello più “estremo”, riuscì però ad ottenere che, in caso di successione intestata, l’eredità fosse divisa in quote uguali tra i figli legittimi, riuscendo così ad abolire il maggiorascato. Inoltre, tale orientamento riuscì a ridimensionare notevolmente la patria potestà. In particolare, venne ridotto al minimo il potere di incarcerazione che il padre aveva verso i figli e si limitò la patria potestà al compimento da parte del figlio del ventunesimo anno di età.

Una svolta nella disciplina di nostro interesse si ebbe il 7 marzo 1793, data in cui si svolsero incandescenti sedute in tema di diseredazione, tema che era stato lasciato in sospeso, ma che proprio in quel periodo divenne estremamente urgente. Jean Augustin Pénières, senza girarci troppo attorno, propose di «distruggere tutti i mezzi utilizzati dall’aristocrazia per staccare dalla Rivoluzione i suoi apostoli più ardenti»[56]. Pénières fa riferimento al fenomeno che stava davvero compromettendo la Rivoluzione, ossia quello dei padri che minacciavano di diseredare i figli che si fossero uniti al movimento rivoluzionario. Il fenomeno della gioventù che non abbraccia la Rivoluzione per paura della diseredazione, è spiegata perfettamente nelle parole di Philippeaux: «Ci sono centomila cadetti che aspettano questa legge per volare alle frontiere, ma la paura di essere ridotti in miseria dalla diseredazione dei loro genitori, che hanno solo questo mezzo per vendicarsi del loro patriottismo, impedisce loro di partire»[57]. Quella magnanimità iniziale dimostrata dai rivoluzionari nei confronti della libertà di testare (e dunque di quella di diseredare) si stava ora ritorcendo contro di loro. La diseredazione eliminava cadetti più di quanti non ne facessero le baionette, costituendo così l’arma più subdola e temibile. I rivoluzionari decisero, dunque, che il tempo della magnanimità era finito. Questa volta per gli orientamenti più moderati non ci sarebbe stata partita. In conclusione di queste animate discussioni, la Convenzione girondina accontenta i deputati più estremi con la legge del 7 marzo 1793 dalla portata autenticamente rivoluzionaria: la facoltà di disporre dei propri beni per testamento o patto successorio venne abolita e con essa anche l’istituto della diseredazione. Il che significa che i patti successori e i testamenti vennero rimossi dall’ordinamento. L’unica successione contemplata era quella intestata, che divideva rigorosamente il patrimonio in parti uguali tra i figli. I giovani francesi potevano finalmente abbracciare la Rivoluzione senza il timore di essere diseredati.

Nei primi mesi del Terrore, una della pagine più violente e sanguinose della Rivoluzione, la situazione si infiamma ulteriormente: vengono approvate una serie di estremistiche leggi successorie ad efficacia retroattiva, destinate a travolgere persino le successioni già chiuse. La più importante, ai nostri fini, è quella del 26 ottobre 1793, che diede efficacia retroattiva alla legge del 7 marzo. Pertanto tale legge dichiarò nulli tutti i testamenti il cui autore fosse morto dopo il 14 luglio 1789. Di conseguenza, nei limiti del possibile, il patrimonio ereditario andava nuovamente individuato e diviso, sulla base delle regole della successione intestata rivoluzionaria che imponevano la divisione del patrimonio rigorosamente in quote uguali tra tutti i figli. Come si può facilmente immaginare, queste disposizioni furono estremamente problematiche da realizzare e comportarono un aumento esponenziale delle liti familiari per questioni ereditarie.

A pochi mesi da questa norma, ne seguì un’altra di grande importanza per il diritto successorio, e che in parte andò ad attenuare l’estremismo di alcune disposizioni precedenti. La legge del 18 gennaio 1794[58], stabilì che i figli nati fuori dal matrimonio, avessero pari diritti successori rispetto ai figli legittimi. L’eguaglianza successoria fra figli legittimi e naturali costituì una svolta epocale. Fino ad allora, infatti, i c.d. “bastardi”, profondamente disprezzati e discriminati dall’Ancien Régime, non godevano di alcun diritto successorio sul patrimonio dei genitori. Infine, con tale legge si andò a rimuovere la regola «paterna paternis, materna maternis» e la distinzione tra propres ed acquêts, facendo trionfare su questo l’antico principio romano dell’unitarietà della successione. Chabot scriverà: «come nel diritto romano, ciascuna successione non formerà che un solo patrimonio e non si distingueranno più diverse categorie di beni per distribuirli, secondo la loro natura, a diverse linee o branche di eredi»[59]. Ma soprattutto, con tale legge si riammise una seppur minima libertà di testare. L’art. 16 di tale legge[60] attribuì al padre la facoltà di disporre a favore di estranei fino a un decimo dell’eredità in presenza di figli e fino a un sesto in assenza di figli, ma in presenza di altri riservatari. Inoltre, venne espressamente fatto divieto di utilizzare la quota disponibile per andare ad aumentare la quota spettante a ciascun riservatario. È interessante notare come tale legge tacque totalmente sia sui patti successori, che sull’istituto della diseredazione, escludendo così questi istituti dal diritto francese. Evidentemente il tema era, di nuovo, quello del principio di eguaglianza. I rivoluzionari, riuscirono a trovare un compromesso tra il principio di eguaglianza e l’istituto del testamento, prevedendo una limitata libertà di testare. Più complesso fu trovarlo con i patti successori e la diseredazione, al punto che si preferì rimuoverli dall’ordinamento.

  1. I limiti alla libertà di testare nel Codice napoleonico

Come si è potuto intuire, uno degli aspetti che caratterizzò la Rivoluzione, da un punto di vista giuridico, fu il frenetico e caotico susseguirsi di leggi, che in breve tempo si integrarono, modificarono e abrogarono vicendevolmente. Solo Napoleone riuscì a ristabilire l’ordine.

Il Codice civile napoleonico del 1804, per quanto riguarda il tema dei limiti alla libertà di disposizione mortis causa, in parte confermò alcune novità rivoluzionarie, e in parte optò per evidenti ritorni al passato. In primo luogo, Napoleone condivise il principio di eguaglianza, che si concretizzò, in particolar modo, nel riconoscimento degli stessi diritti successori sia ai figli legittimi, che naturali, confermando quella parificazione conquistata con la Rivoluzione. Confermò anche la libertà di disporre mortis causa dei propri beni tramite il solo testamento. Quindi, anche Napoleone, come la legge 18 gennaio 1794, respinse i patti successori. A differenza di quella legge però, Napoleone non fù affatto ambiguo, e in tutta una serie di norme vietò espressamente ogni tipo di patto successorio. Anche questo divieto era principalmente dovuto a ragioni di eguaglianza. Napoleone abbracciò, infatti, quelle idee rivoluzionarie che vedono i patti successori come particolare fonte di discriminazioni familiari. Si pensi, per ipotesi, ai patti successori rinunciativi, tramite i quali il padre avrebbe potuto manipolare il secondo genito, già di maggiore età, ma ancora ingenuo, a sottoscrivere un contratto successorio in cui “per il bene della famiglia” rinunciava alla maggior parte dei beni ereditari a lui spettanti a favore del primogenito, così da aggirare il principio di eguaglianza, e perpetuare, in un qualche modo, il tanto detestato diritto di primogenitura. Sempre per la stessa necessità di salvaguardare il principio di eguaglianza, venne confermato il divieto di diseredazione. Tuttavia, per evitare che conservassero il diritto alla riserva anche quei riservatari che avessero gravemente offeso il de cuius, vennero previste nel Code civil tre ipotesi di indegnità a succedere[61].

A differenza del diritto rivoluzionario, Napoleone andò ad aumentare la quota disponibile del testatore, stabilita in un mezzo, un terzo e un quarto a seconda che il de cuius, morendo, lasciasse uno, due o più figli oppure, in loro rappresentazione, ulteriori discendenti. Essa venne, invece, stabilita in un mezzo, se in mancanza di discendenti, il de cuius avesse lasciato uno o più ascendenti in ciascuna linea materna e paterna, o tre quarti se non avesse lasciato ascendenti che in una sola linea. La quota indisponibile andava sempre divisa in parti uguali tra i riservatari.

Per quanto riguarda la quota indisponibile spettante agli stretti congiunti, durante i lavori preparatori del Code civil, ci fu un dibattito su come andasse chiamata, se legittima o riserva. Alla fine prevalse quest’ultima. Bisogna però specificare come l’istituto contenuto nel Code civil è frutto dell’ibridazione dei due istituti, così che dalla loro fusione ne nacque uno nuovo, differente sia dalla legittima, che dalla riserva. Di conseguenza, la decisione più appropriata sarebbe stata quella di attribuire un nuovo nome al nuovo istituto. Nonostante questo, prevalse il nome di réserve, il che si può spiegare solo col desiderio di voler fare un omaggio alla tradizione giuridica franco-germanica, dal momento che nel nuovo istituto prevalsero più gli elementi della legittima romana, piuttosto che quelli della riserva germanica[62]. Il nuovo istituto della réserve contemplato dal Codice civil, esattamente come avveniva per la legittima romana, si calcolava su tutto il patrimonio ereditario (calcolato come relictum, mano passività, più donatum) e non solo sui propres. Gli aventi diritto erano i parenti in linea retta: prima i discendenti e in loro assenza gli ascendenti. Inoltre, esattamente come per la legittima romana, si tratta di una quota variabile in base al numero e alla qualità degli eredi e trova il suo fondamento nel dovere morale del de cuius di provvedere al sostentamento dei più stretti congiunti e non certo nell’idea politica del lignaggio, spazzata via dalla Rivoluzione. Ciò che la réserve disciplinata nel Code Napoléon condivide con la riserva franco-germanica è il fatto che la sua lesione vada calcolata e debba risultare solo al tempo della morte e non anche al tempo del compimento dell’atto, che non sia più parametrata a una quota parte di successione intestata e che la sua tutela sia di natura reale, in quanto affidata all’azione di riduzione, che mantenne le caratteristiche già descritte.

In seguito all’entrata in vigore del codice, la dottrina francese dovette affrontare diverse questioni controverse, non chiarite dal Code civil. Fra queste emergeva l’interrogativo se il testatore potesse comporre a piacimento la quota indisponibile o meno. Detto altrimenti, ci si chiedeva se l’intangibilità della réserve andasse ancora intesa in senso qualitativo o se invece fosse possibile concepirla in senso quantitativo alla luce del nuovo codice. Ricordiamo che fino a quel momento, a causa dell’interpretazione “creativa” del Corpus Iuris ad opera dei giuristi feudali, si era imposta una visione qualitativa della quota indisponibile, così che il padre non potesse liquidare un figlio con soli beni mobili o denaro. In seguito a un lungo dibattito, si decise che la réserve dovesse essere formata proporzionalmente da tutti i beni della massa e, quindi, che bisognasse continuare ad intenderla ancora ed esclusivamente in senso qualitativo. Evidentemente i giuristi francesi ottocenteschi erano, dopo la Rivoluzione, ancora troppo influenzati dal principio di eguaglianza, per poter superare la concezione qualitativa della réserve, che venne, anch’essa, contemplata dalla dottrina come strumento per garantire il pieno rispetto del suddetto principio. Il superamento della concezione qualitativa della legittima in favore di una concezione quantitativa avvenne solamente nel secolo successivo ad opera della giurisprudenza[63].

Il diritto italiano, prendendo a modello il sistema francese, con il primo Codice civile dell’Italia unita del 1865, recepì gran parte del diritto successorio del Code Napoléon, così che non particolarmente significative furono le differenze tra i due ordinamenti in tema di limiti alla libertà di testare. Tale assetto non cambiò nei sui tratti essenziali neppure col passaggio dal codice del 1865 a quello del 1942, dal momento che le modifiche in tema di legittima furono principalmente di sistemazione[64] e non di natura concettuale, così che il meccanismo di tutela dei legittimari rimase sostanzialmente il medesimo.

[1] Gai. 2.153.

[2] B. WINDSCHEID, Diritto delle Pandette, III, 1, trad. it., Torino, 1904, § 575.

[3] Il Pater familias doveva essere: uomo libero (liber), cittadino romano (civis romanus) e di proprio diritto (sui iuris, ossia senza alcun ascendente maschio vivo che esercitasse la potestà su di lui). Per tali ragioni coincideva con il maschio più anziano della famiglia.

[4] Si tratta di espressioni utilizzate sin dall’età arcaica. Il termine ius indicava i poteri del pater familias sia sulle persone, come ad esempio il già citato ius corrigendi, sia sulle cose, come ad esempio lo ius commercii. Potestas, manus e mancipium indicavano, invece, esclusivamente i poteri del pater familias sulle persone che componevano la famiglia. Il pater familias esercitava la potestas su figli, nipoti, e più in generale su tutti i suoi discendenti, sia maschi che femmine. Esclusi erano solo i figli che erano usciti dalla famiglia in conseguenza di mancipatio e adoptio, o per le figlie femmine, in caso della valida conclusione di un matrimonio cum manu e con esclusione in ogni caso dei figli illegittimi. Egli esercitava la potestas anche sugli schiavi, i quali erano considerati oggetti, seppur “oggetti parlanti”, secondo un’efficace metafora verroniana. La manus era, invece, esercitata dal pater familias su tutte le donne che entravano a far parte della famiglia in virtù della conclusione di un valido matrimonio cum manu. Quindi non solo sulla propria moglie, ma anche su quella di figli, nipoti e di tutti i suoi sottoposti. Il pater familias, infine, esercitava il mancipium su tutte le persone libere che gli erano state vendute per mezzo della mancipatio.

[5] Legge delle XII Tavole, editto del pretore, senatoconsulto o costituzione imperiale a seconda del periodo storico.

[6] A. LOVATO – S. PULIATI – L. SOLIDORO, Diritto privato romano, II edizione, Torino, 2017, p. 623. I patti successori erano, per il diritto romano, tutti nulli per molteplici ragioni. I patti istitutivi erano quei patti con cui una parte si obbligava a istituire un’altra erede col suo testamento. Erano considerati nulli, perché limitavano la libertà di testare, che contempla, per il testatore, anche la possibilità di cambiare le sue disposizioni testamentarie fino all’ultimo istante di vita. Il patto acquisitivo con cui le parti convenivano che una sarebbe diventata erede dell’altra, era invece considerato nullo, perché secondo il diritto romano solo il testamento era atto idoneo per istituire erede. Il patto rinunciativo era quello tramite cui una parte rinunciava all’eredità non ancora deferita, nullo perché per i romani non si poteva disporre di un’eredità non ancora aperta. Per la stessa ragione era nullo anche il patto dispositivo, con cui una parte vendeva o donava l’eredità che gli era stato promesso avrebbe acquisito per testamento.

[7] Ulp. 22.14; Gai 2. 123.

[8] L’attività di testare costituiva, infatti, per le famiglie romane una tradizione dalle origini pressoché leggendarie risalenti al VIII secolo a.C. e riportate da Varrone. Romolo avrebbe assegnato a ciascun maschio della comunità un terreno costituito da due iugeri di terra, denominato heredium, in quanto alla morte dell’assegnatario sarebbero subentrati nel diritto sul quel terreno gli heredes sui, cioè i figli assoggettati alla potestà del padre defunto. Mentre Plinio il Giovane nelle sue epistulae riferisce come per fare testamento, soprattutto nelle famiglie più prestigiose, si era soliti indossare gli abiti più sontuosi. Diseredare significava, in un qualche modo, derogare a quella antichissima tradizione. Ecco che, la probità ai costumi dei romani, soprattutto in età arcaica e preclassica, contribuì a trattenere uno sfrenato ricorso alla diseredazione.

[9] Il testamentum calatis comitiis consisteva in un atto formale, compiuto oralmente davanti ai comizi curiati, che si riunivano alla presenza del pontifex maximus, solo due volte all’anno: il 24 marzo e il 24 maggio. Per cui si aveva la possibilità di fare testamento in questa forma solo due volte all’anno. Il testatore affidava solennemente le sue ultime volontà alla memoria di tutti i cittadini. Il popolo aveva la qualità di testimone, fondamentale in una civiltà che ancora non conosceva l’utilizzo degli atti scritti.

[10] Il testamentu im procintu era stato appositamente creato per venire incontro alle esigenze dei militari. Consisteva nella orale dichiarazione formale e solenne, resa dinanzi all’esercito schierato e pronto per la guerra (da qui il nome in procintu ossia “in procinto della battaglia”). In questo caso, quindi, erano i compagni d’arme a fungere da testimoni.

[11] Con la mancipatio familiae ci si servì del già esistente e diffuso istituto della mancipatio, utilizzato per la vendita delle res mancipi, per fare testamento. Gaio riferisce come in virtù di questa forma di testamento il pater familias trasferiva il proprio patrimonio a un amicus, ossia una persona di sua fiducia, seguendo le stesse formalità richieste per la mancipatio, tra cui la necessaria presenza di almeno cinque testimoni, cittadini romani, maschi e puberi. L’amico che accettava questo importante incarico diventava il familiae emptor, in quanto acquisiva il patrimonio della famiglia, di cui però non poteva disporre senza incorrere nel furto, severamente sanzionato. Solo una volta morto il de cuius, il familiae emptor avrebbe potuto disporre del patrimonio che gli era stato trasferito, ma al solo fine di dare esatta esecuzione alle ultime volontà del de cuius.

[12] Nel II secolo a.C., grazie all’intervento non del legislatore, ma della giurisprudenza, la mancipatio familiae si trasformò in una nuova forma di testamento: il testamento per aes et libram. Tale forma di testamento rimase identica alla mancipatio familiae, a cui venne soltanto cambiato il formulario così da evitare il trasferimento della proprietà del patrimonio familiare all’amicus. Quest’ultima forma di testamento fu quella che andò a soppiantare completamente le precedenti, in quanto presentava molteplici utilità. Era un testamento accessibile anche alle donne, caratterizzato da un formalismo meno macchinoso rispetto ai precedenti e soprattutto poteva essere compiuto in qualsiasi momento.

[13] Cfr. Gai 2.127, Gai 2.132 e I. 2.13.1

[14] Con l’espressione ceteri sui si indicavano tutti i membri della famiglia diversi dai figli maschi del de cuius, come ad esempio le figlie femmine in potestate, i nipoti e la moglie cum manu. A differenza dei figli maschi che andavano espressamente diseredati ciascuno nominativamente, i ceteri sui potevano essere diseredati con un’unica formula complessiva, del tipo: «Ceteri omnes exheredes sunto» che significa «Siano tutti i ceteri diseredati».

[15] Cfr. Gai 2.127, Gai 2.132, I. 2.13.1 e Gai 2. 123.     

[16] Cfr. Pau. sent. 4, 5, 6 e D. 5, 2, 8, 6.

[17] È importante specificare come si trattasse di una presunzione relativa e non assoluta, per cui era ammesso che i soggetti istituiti eredi provassero il contrario, ma superare questa presunzione era al quanto complesso.

[18] Cfr. Iust. Inst. 2.18.

[19] D. 5.2.2; D. 5.2.3.

[20] D. 5.2.8.6.

[21] C. 3, 28, 36.

[22] D. 50. 17. 54.

[23] Cfr. G. AMENTA, La successione necessaria: essere o non essere?, in Rass. dir. civ., 3/2009, pag. 615, nota 24.

[24] CI. 3.28.30, a. 528.

[25] Tuttavia, è bene sottolineare come fosse una mera facoltà del legittimario quella di ottenere la nullità del testamento nonostante avesse ricevuto a titolo diverso da quello di erede beni ereditari pari o superiori alla legittima. Questo significa che il legittimario che avesse ricevuto beni pari o superiori alla legittima e a cui poco o nulla importasse dell’offesa arrecatogli dalla mancata istituzione di erede, avrebbe potuto decidere di prendersi ciò che gli era stato dato, senza esercitare alcuna azione per vedersi riconosciuto il titolo di erede.

[26] Nov. 18, 3.

[27] Giustiniano fece indicare tassativamente i motivi di diseredazione in 14 per i discendenti e in 8 per gli ascendenti, rispettivamente nei capitoli terzo e quarto della Nov. 115. I discendenti potevano essere diseredati per i seguenti motivi: 1) se ai genitori fossero praticate ingiurie di fatto; 2) ovvero ingiurie verbali gravi ed indecenti; 3) se il figlio gli accusò in cose criminali; 4) se ebbe il figlio pratica, facendo egli pure un tale mestiere, con venefici e stregoni; 5) se i figli tesero insidie alla vita dei genitori; 6) se il figlio ebbe carnale commercio colla sua matrigna o colla concubina del padre; 7) se il figlio si fece delatore dei suoi genitori e cagionò loro così grave danno; 8) se il figlio venne pregato dai suoi genitori di liberarli dal carcere prestando fideiussione per essi  ed egli non lo fece; 9)  se i figli impedirono di fare testamento o di mutare il già fatto; 10) se il figlio contro la volontà dei genitori entrò nella compagnia di lottatori od istrioni e vi restò, salvo che i genitori vi appartenevano essi stessi; 11) se la figlia condusse una vita immorale od onta, mentre il padre cercava di maritarla mediante offerta di una dote; 12) se i figli trascurarono i loro genitori dementi; 13) se i figli (adulti) non liberarono i genitori dalla prigionia; 14) se i figli abiurarono la vera fede. Gli ascendenti potevano, invece, essere diseredati per i seguenti motivi: 1) se i genitori tesero insidie alla vita dei figli; 2) se i genitori impedirono di fare testamento o di mutare il già fatto; 3) se i genitori trascurarono i loro figli dementi; 4) se i genitori non liberarono i figli dalla prigionia; 5) se i genitori abiuravano la vera fede; 6) se i genitori diedero in mano alla giustizia i loro figli condannati alla pena di morte, ad eccezione del delitto di lesa maestà; 7) se il padre ebbe a che fare con la moglie e la concubina del figlio; 8) se la madre tese insidie alla vita del padre o il padre alla vita della madre. Per un approfondimento circa la diseredazione nel diritto giustinianeo v. A. HAIMBERGER, Il diritto romano privato e puro, trad. it., Venezia, 1840, p. 203 s. Durante il Medioevo gli interpreti cominciarono a qualificare come indegnità le ipotesi tassativamente indicate nel diritto giustinianeo e come diseredazione le disposizioni destitutive di ultima volontà fatte in nome di cause diverse da quelle tassativamente indicate. Per saperne di più cfr. A. MARONGIU, Diseredazione, in Enc. dir., XIII, 1964, p. 99 ss.

[28] Così viene interpretata, dalla maggior parte degli storici, l’espressione utilizzata da Tacito e riferita ai germani di «domos figunt», Tacito, De origine et situ Germanorum, cap. 46. A riguardo cfr. pure F. SCHUPFER, L’allodio, Torino, 1885, p. 21.

[29] AMENTA, La successione necessaria: essere o non essere?, cit., p. 617.

[30] «Una sorta di detenzione a vantaggio della famiglia», così E. DE BELVIS, La successione necessaria tra storia e riforme, Napoli, 2013, p. 43. Sul punto cfr. pure A. SOLMI, Storia del Diritto Italiano, Milano, 1930, p. 337.

[31] Della stessa idea E. BETTI, Successione legittima intestata e successione legittima necessaria, Milano, 1928-29, p. 15-16; ed anche A. PALAZZO, Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza famigliare, in AA.VV., La trasmissione famigliare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 30-31.

[32] Si tratta di un principio tratto dall’espressione di Tacito «Heredes tamen successoresque sui cuique liberi et nullum testamentum», in De origine et situ Germanorum, cap. 20.

[33] Taluno ritiene che questo meccanismo successorio sia riconducibile alla sola successione legittima, a riguardo cfr. C. CALISE, Diritto privato, in Storia del Diritto Italiano, III, Firenze, 1891, p. 196. Altri invece ritengono che in tal caso parlare di successione legittima sia errato e che, invece, corretto sarebbe parlare di successione necessaria, a riguardo cfr. L. SALIS, La successione necessaria nel diritto civile italiano, Padova, 1929, p. 30-31.

[34] AMENTA, La successione necessaria: essere o non essere?, cit., p. 618.

[35] Inizialmente la portio sua comprendeva solo beni mobili e denaro. Col tempo, vi rientrarono anche i beni immobili.

[36] «Le parti erano uguali se divise con i figli maschi; in loro mancanza al padre spettava la quota di un terzo o della metà del patrimonio famigliare, a seconda che avesse lasciato una o più figlie», così DE BELVIS, La successione necessaria tra storia e riforme, cit., p. 49.

[37] Cfr. L. COVIELLO, Successione legittima e necessaria, Milano, 1937, p. 288.

[38] Cfr. DE BELVIS, La successione necessaria tra storia e riforme, cit., p. 52.

[39] AMENTA, La successione necessaria: essere o non essere?, cit., p. 619.

[40] Ibidem.

[41] Cfr. L. MENGONI, Successione necessaria, in Trattato di diritto civile e commerciale, XLIII, t.2, Milano, 1992, p. 22.

[42] Cfr. M. GRASSO, Tractatus de successione tam ex testamento quam ab intestato, Venezia, 1606, § legitima, q. 15, p. 430.

[43] «Se gli eredi appartenevano tutti a una sola linea (paterna o materna), i propres dell’altra linea (estinta) erano reputati acquêts e come tali diventavano disponibili», così MENGONI, Successione necessaria, cit., p. 24, nota 101.

[44] MENGONI, Successione necessaria, cit., p. 26.

[45] Ibidem.

[46] MENGONI, ivi, p. 25.

[47] MENGONI, Successione necessaria, cit., p. 26.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem. Cfr. anche A. THIERRY, Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers État, Parigi, 1893, p. 38 ss.

[50] MENGONI, ivi, p. 27.

[51] Coutumes de Beauvaisis, chap. XII, § 385 (edizione critica a cura di A. SALMON, Parigi, 1889-1890, I, p. 183).

[52] Questa soluzione fu spinta dal fatto che, nel diritto consuetudinario, il testamento era contemplato in modo diverso rispetto al diritto romano, per questo non si scelse di accogliere gli antichi strumenti romani di tutela, ma di crearne uno nuovo.

[53] MENGONI, Successione necessaria, cit., p. 29.

[54] È proprio la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 che all’art. 17 qualifica il diritto di proprietà come «droit inviolable et sacré».

[55] «[…] voyez ces viles manœuvres et ces lâches artifices par lesquels l’avidité s’efforce de conquérir la prédilection et l’hérédité paternelles; voyez les enfants immolés à d’autres enfants; voyez la cruelle opulence d’un frère insultant à l’indigence de son frère […]», Le Point du Jour t. XXI n°634, p. 60 in M. Robespierre, Œuvres, tome VII, Discours, Parigi, 1952, p. 182.

[56] «[…] détruire tous les moyens dont l’aristocratie se sert pour détacher de la Révolution ses plus ardents apôtres […]», MAVIDAL – LAURENT – CLAVEAU – PIONEER – LATASTE – BARBIER, Archives parlementaires de 1787 à 1860, 1ère série , t. LIX, 7 marzo 1793, Parigi, 1901, p. 680.

[57] «Il y a cent mille cadets qui attendent cette loi pour voler aux frontières mais la crainte d’être réduits à la misère par l’exhérédation de leurs parents qui n’ont que ce moyen pour se venger de leur patriotisme les empêche de partir», ivi, p. 681.

[58] Cfr. DE BELVIS, La successione necessaria tra storia e riforme, cit., p. 79.

[59] MENGONI, Successione necessaria, cit., p. 34.

[60] Cfr. DE BELVIS, La successione necessaria tra storia e riforme, cit., p. 79.

[61] Code Napoléon, art. 727: «Sono indegni di succedere e come tali esclusi dalla successione: 1. Colui che fosse condannato per aver ucciso il defunto; 2. Colui che avesse promosso contro il defunto un’accusa di diritto capitale giudicata calunniosa; 3. L’erede maggiore, il quale informato dell’uccisione del defunto, non lo denunciò alla giustizia».

[62] «Dei due istituti che si sono visti coesistere all’epoca delle coutumes: la legittima e la riserva, passò nel codice lo spirito del primo e il nome del secondo», così BETTI, Successione legittima intestata e successione legittima necessaria, cit., pag. 27.

[63] Cfr. A. SEMPRINI, La legittima per equivalente, Napoli, 2019, p. 74.

[64] Cfr. G. TAMBURRINO, Successione necessaria (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 1350.

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